Des dieux civiques aux saints patrons (IVe-VIIe siècle)
a cura di J-P. Caillet, S. Destephen, B. Dumézil, H. Inglebert
Paris 2015

file_156_4Un’interessante rivisitazione delle origini del culto dei santi
di Sofia Boesch Gajano

Jean-Pierre Caillet, Sylvain Destephen, Bruno Dumézil e Hervé Inglebert propongono nel volume collettivo Des dieux civiques aux saints patrons (IVe-VIIe siècle), Paris, Picard, 2015, una rivisitazione delle origini del culto dei santi nel mondo tardoantico, proseguendo nella riflessione inaugurata da Le problème de la christianisation du monde antique (Paris 2010).

L’ambito considerato per esaminare il fenomeno della cristianizzazione, si precisa nell’Introduzione di Inglebert: è quello della cité, «comprise non comme ville chef-lieu, mais comme corps structuré par des institutions publiques», che comporta il privilegiamento degli aspetti religiosi collettivi. Non si tratta dunque della riproposizione del tema tanto dibattuto della sostituzione dei santi cristiani agli dei pagani, quanto piuttosto dell’analisi della cristianizzazione del mondo antico a partire dai pagani, cioè da coloro che si sono convertiti, per i quali «les modèles religieux dominants étaient ceux des cités, qui avaient chacune sa religion propre définie par son panthéon, son calendrier et ses rites» (p. 8). Non di una sostituzione terme à terme, ma di una progressiva destrutturazione dei sistemi pagani locali e della progressiva strutturazione dei sistemi cristiani locali, caratterizzati da nuove funzioni, di cui i vescovi furono i principali interpreti, così da poter parlare di «discontinuité chronologique aux niveau des collectivités entre le temps de dieux et celui des saints, et généralement de discontinuité topique entre le culte des premiers et celui des seconds» (p. 21). La tradizionale opposizione storiografica fra un culto dei santi di origine spontanea accettato dal clero e un culto dei santi proposto dai vescovi a loro vantaggio, viene risolta con la proposta della loro complementarità: l’una essendo volta alla protezione personale, spirituale o materiale, la seconda alla coesione della comunità intorno ai suoi patroni morti (i santi) o vivi (i vescovi) secondo un modello di origine civica, destinato a estendersi a tutta la collettività: «en unifiant les anciennes dimensions privèe et publique de la religion antique, le christianisme devint de 350 à 550 quelque chose de nouveau, une religion totale, à la fois différente du christianisme primitif et des cultes civiques traditionnels» (p. 22).

Su questo sfondo interpretativo si confrontano gli autori dei 19 saggi, che spaziano dal punto di vista della geografia in un’area che possiamo definire mediterranea, propria del mondo tardoantico, che unisce ancora Oriente e Occidente, e dal punto di vista disciplinare dall’archeologia all’agiografia, dalla storiografia alla storia della medicina. Alcuni saggi prendono in considerazione ampi ambiti territoriali: l’impeto ellenofo (Nicole Belayche), l’Asia Minore (Sylvain Destephen), la Fenicia (Julien Aliquot), l’Oriente romano (Aude Busine), l’Italia (Cantino Wataghin), la Gallia (Bruno Dumézil e Brigitte Beaujard), la Spagna (Ripoll e Arce); altri riprendono casi specifici, il culto di Pietro e Paolo a Roma (Jean-Pierre Caillet), dei martiri di Lione (Marie-Céline Isaïa) e di Martino di Tours per la Gallia (Luce Pietri), di Demetrio a Tessalonica (Jean-Michel Spieser), o agiografie famose come quelle di Gregorio di Tours e Venanzio Fortunato (Sylvie Labarre), o relative ai santi militari (Vincent Deroche) o a Gregorio Illuminatore (Giusto Traina). Altri saggi rivisitano temi antichi, ma recentemente più trascurati come quello delle pratiche alimentari pagane e cristiane in occasione delle festività religiose (Béatrice Caseau), e quello della cultura medica ad Alessandria (Caroline Petit), che mostra la potenzialità di ricerche sistematiche pluridisciplinari anche per altre realtà.

Interlocutore privilegiato per questa proposta storiografica non poteva che essere Peter Brown, cui sono state affidate le conclusioni. Lo storico si affida a sua volta a Paul Verlaine («rien de plus cher que la chanson grise/ou l’Indecis au Précis se joint… / car nous voulons la nuance encore, / pas de couleur, rien que la nuance») per esprime il senso complessivo della proposta: «In the study of the cult of the saints in late antique Christianity we have reached a moment of nuance. We have brought a new sense of diversity and a exquisite precision to the study of what had once been a field “blocked out”» (p. 375). Esplicito il riferimento al suo Il culto dei santi e alla tesi dei vescovi come “impresari del culto”: l’accurata analisi dei singoli contributi porta Brown ad accentuare, ancor più che le nuances, la frammentazione di casi e di situazioni, che resiste a un’interpretazione univoca non solo fra Oriente e Occidente, ma anche all’interno di realtà circoscritte, come quelle della Gallia, per la quale, rileva, Bruno Dumézil ha messo in discussione il ruolo dei vescovi come federatori dell’identità della città (p. 379). Se il campo della ricerca, per usare le parole di Brown, non è più “bloccato”, «the problem remain with us» (p. 384) e continuerà a rimanere per le future ricerche.

In analogia con quanto avvenne con Maometto e Carlomagno di Henri Pirenne, con una teoria sconfessata dai più, ma scientificamente fertile, le nuances sarebbero state e saranno possibili senza un’interpretazione “dirompente” con cui confrontarsi?

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